Nòstos

Luminaria sprecata

Not all those who wander are lost.
(J. R. R. Tolkien)

Non tutti quelli che vagano sono perduti. Capita che perdersi sia necessario per ritrovarsi e il viaggio non sia altro che un ritorno a casa. Se un luogo, un’anima, un cuore sono stati davvero importanti, si ripresenterà la possibilità di ritrovarli. Perché ciò che hai amato non è mai del tutto perduto. La tua Itaca è casa, ma a volte per comprenderlo hai bisogno di allontanarti, di compiere quel viaggio, senza meta, che sarà un tornare alle origini, questa volta consapevoli di sé.

Ogni tanto bisogna saper fare un passo indietro, per concedere e concedersi lo spazio per spiegare le ali e provare a spiccare il volo da soli. Solo abitando la mancanza, solo scoprendo la possibilità e il peso del vuoto, potrai capire se la libertà da ogni legame ti ha permesso di essere finalmente felice o ha smarrito…

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Se resti

Se resti un altro po’

se rimani ancora qui

se mi tendi la mano

se trattieni i tuoi sospiri

se mantieni il passo,

allora resto anche io

ti afferro stretta la mano

trattengo le parole

calmo le gambe penzoloni

freno i piedi irrequieti 

rallento il battito

ricaccio in fondo alla gola sillabe pasticcione

allontano le paure

ti sgombro la strada

faccio spazio accanto a me.

Resto muta,

immobile 

in attesa.

Scruto le tue mosse

i tuoi gesti, i tentennamenti,

gli inciampi 

fino a quando non cederai

al moto dei tuoi istinti,

al guizzo del cuore.

Allora anche io farò le mie mosse, 

lascerò cadere scudo e corazza

toglierò l’elmo 

deporrò la lancia

e i miei passi ricalcheranno i tuoi

le mie mosse saranno simili alle tue,

cadremo in battaglia,

non scontro 

ma incontro,

danza di sospiri  e gemiti,

melodia senza affanni, 

ristoro e riparo dagli agguati.

Particella nel pulviscolo

Rammento il candore del tuo volto,

richiamo la mappa dei tuoi nei,

geografia di una terra scandagliata.

Seguo il solco della tua schiena,

spina dorsale senza rimpianti,

scavo inerme sotto le mie dita.

Inseguo l’andirivieni dei tuoi pensieri,

riannodo le fibre,

sciolgo i riccioli al vento,

libro mani nell’aria come per accarezzare

l’inganno dei tuoi lineamenti  

mentre sfumano all’orizzonte 

perdendosi tra un bagliore 

e un singhiozzo.

Ora che non sei più qui

ora che sondi itinerari imperscrutabili

e i tuoi viaggi inseguono attrazioni celesti,

a me non resta che immaginarti

luce nell’arcobaleno

particella nel pulviscolo.

Il nostro tempo

Arriverà il nostro tempo 

la nostra ora

l’istante in cui tutto si fermerà

le lancette cesseranno di rincorrersi 

la brezza di soffiare 

il pruno di fiorire

la mosca di ronzare

la rondine di volare

l’organista di suonare 

la donna di sorridere

il bambino di piangere

il prete di benedire.

Il tuoi occhi saranno mare e terra

àncora e aratro,

scavo e salvezza.

Le cicatrici risaneranno

l’ombra sul cuore svanirà 

i piedi si solleveranno 

l’anima acerba svernerà.

Arriverà quel tempo,

il nostro tempo,

in cui non mi temi

in cui non ti temo.

Arriverà il nostro tempo,

la nostra ora

l’istante in cui tutto si fermerà 

e l’universo udrà all’unisono 

solo il nostro battito di ciglia.

Senti mai

Senti mai la voglia di 

allontanarti

partire

viaggiare

rinascere

su un treno, su una corriera

su un biplano sgangherato

su un aliscafo senza ritorno

mentre sulle Eolie soffia il maestrale

o mentre saluti il nuovo giorno 

sotto l’aurora boreale

tra sibili 

senza perturbazioni 

senza vuoti 

senza pieni

senza trascinarti

senza bisogno di naufragare?

Senti mai quel desiderio

di libertà

di reincarnarti in altre vite

mentre tutto scorre 

dimentico di te,

scevro da ansie

pozzanghere e nuvoloni,

nudo, inerme

eppure vivo?

Senti mai, 

davvero, 

lo strazio del cuore

nel silenzio assordante 

d’un mare d’inverno?

Graffia, stride, implora.

Frastorna, stordisce, soffoca. 

Sfrana l’argine

straripa, innonda ogni fibra

ogni afflato

ogni sospiro. 

Pervade e lacera,

avvampa e brucia

spezza le catene:

é ribellione,

volo,

fuga senza approdo.

I fantasmi della mente

I fantasmi della mente hanno nomi strani, sono fobie ataviche, tolgono il sonno e la fantasia. Si fa quasi fatica a nominarli, figuriamoci a comprenderli e ad accettarli. Sono mostri insidiosi, irrazionali, che aleggiano come avvoltoi su ogni tentativo di spazzarli via. È difficile spiegare un attacco di panico a chi non l’ha mai provato sulla propria pelle, così com’è difficile comprendere la depressione e ogni patologia invisibile agli occhi dei più. Anche solo ammettere di avere una paura implica uno sforzo immane, fino a raggiungere poi la consapevolezza di avere un limite difficile da superare. Se la difficoltà sia oggettiva o soggettiva, alla nostra testa poco importa: la paura paralizza, soffoca, uccide ogni tentativo di accrescere l’autostima, ogni ripetersi quanto valiamo, cosa abbiamo fatto finora, cosa abbiamo vinto e sconfitto. La paura non conosce ragione, ha un linguaggio tutto suo, mette a tacere ogni neurone, spegne ogni barlume di lucidità, mistificando l’idea che abbiamo di noi stessi.

Oggi è il secondo giorno che, dopo dieci lunghi anni, mi sono rimessa alla guida. Pare che abbia guidato proprio io, perché quel folle al mio fianco, per uccidere i fantasmi della mia mente, ha ben pensato di incrociare i piedi e alzarli, mettendoli in bella vista sul cruscotto, facendomi ridere e sbraitare allo stesso tempo, implorando serietà in tutte le lingue che conosco.

L’amaxofobia ha inciso sulla mia qualità di vita, anche se non voglio ammetterlo, anche se non mi ha impedito di studiare, lavorare, realizzarmi. È una paura destabilizzante che nasce nella mia testa e, per quanto possa ripetermi che devo superarla, non ci riesco.  Ieri ho sudato freddo, ero rigidissima, incavolata con il mondo intero e più ancora con i miei limiti, con una paura fottuta addosso, costretta, obbligata, ma guidavo, come se non fossi io a farlo, quasi senza consapevolezza. Ho vissuto male l’idea di doverlo fare, mi sono chiusa nel mio mutismo, ho sentito i battiti del cuore accelerare, il sudore nervoso impregnare il mio corpo, l’ansia e l’agitazione impossessarsi dei miei pensieri. Nei giorni scorsi ho persino avuto incubi che mi costringevano a svegliarmi di soprassalto nel cuore della notte, sudata e col cuore a mille. Questa sfida da vincere, mischiata ai tanti pensieri che ho per la testa, mi genera un mix d’ansia assurda, concentrata, esplosiva.

Dicono che i veri limiti sono solo nostra mente, e forse sarà anche vero, però è così difficile far capire al mondo esterno le paure invisibili che ci attanagliano. Quelle paure che ci paralizzano quando siamo soli in una situazione che, per la nostra testa, è catalogata col bollino rosso: alto pericolo. Così capita a me, l’idea di guidare mi terrorizza, mi rende inerme, stupida, mi toglie il respiro e mi genera ansia. Non riesco a scendere da sola e a mettermi al volante, nonostante abbia conseguito la patente e nonostante, dopo dieci anni, costretta per necessità a riprendere qualche lezione, io riesca a guidare con qualcuno al mio fianco. Il fantasma della mia testa è, però, irrazionale e agguerrito, mi permette di sentirmi rassicurata dalla presenza dei  comandi a disposizione anche dell’istruttore e mi lascia vincere momentaneamente l’amaxofobia, che così apparirà ancora più incomprensibile e ingiustificata agli occhi del mondo esterno. È strano, ma, sebbene riesca a sentirmi libera dai miei limiti per qualche ora, una volta sola, sono nuovamente in preda ai miei timori. È un vortice irrazionale che non riesco a superare. È uno sforzo di volontà che non riesco a impormi. Mi domandano come sia possibile, come può accadere che una persona intelligente e determinata debba essere schiava di una paura. Beh, se fosse stato qualcosa di razionale, di comprensibile, forse avrebbero ragione loro ad accusarmi di pigrizia, di egoismo e di non so quante altre cose mi sono sentita dire. Ma il punto è che la mente è fragile e un vizio, un timore, un’errata convinzione hanno terreno facile per insinuarsi e coltivare paure, fino a erigere muri e alzare barriere. Razionalizzare, mettere nero su bianco, obbligarmi a fare comunque ciò che mi genera terrore non serve ad abbattere il mostro.

C’è una parte di me che vorrebbe sentire il vento sul volto mentre guida libera da ogni freno. Ma c’è una parte più forte che mi paralizza quando sono sola al volante e mi toglie il respiro. Come si può uccidere un fantasma che non si riesce a catturare e ad abbattere, nonostante gli sforzi? Perché non riusciamo ad accettare che ognuno di noi dovrebbe essere libero di avere persino la sua fobia e di doverci convivere, senza per questo essere giudicato e additato di inettitudine?

Se oggi mi sono letteralmente costretta ad affrontare la mia paura è perché io ho diritto di sapere se posso o non posso vincerla. Io, non il mondo esterno. Mi piacerebbe avere lo stesso diritto di non sentirmi colpita nel mio tallone d’Achille.

Radici

Tra un paio di giorni dovrò presentarmi davanti al comitato di valutazione per la conferma o meno del ruolo dopo il mio anno di prova. Sulle ginocchia ho il dossier che presenterò. Dovrei prepararmi un discorso, un bilancio sulle esperienze e sulle attività svolte. Eppure, una sola parola mi rimbomba nella testa. Una parola brutta, con cui ho imparato a convivere sin da piccola, ma ancora oggi, a ventinove anni, mi paralizza.  Mi fa sprofondare nel buio pesto dei miei pensieri. Toglie il terreno sotto i piedi. Fa vacillare ogni certezza. Mi riporta indietro negli anni, mi fa rivivere paure, angosce, disperazione, con ancora più intensità, quell’intensità dovuta alla maturità e alla consapevolezza che quando certi mostri ritornano sono sempre più feroci e le battaglie sempre più brevi.

Provo a scacciare i brutti pensieri, asciugando a mani piene i lacrimoni sul viso. Un nodo alla gola soffoca qualsiasi parola. È qualcosa che ho già vissuto. È qualcosa che ho imparato a conoscere, eppure provoca lo stesso identico dolore, lo stesso terribile senso di impotenza e di paralisi. Ho già vissuto questo calvario ma le spalle larghe non sono più così forti. Io non sono forte. È apparenza la mia corazza, è un alibi la mia determinazione. Io non sono pronta e non sono forte. Ho paura. Ho paura come qualsiasi essere umano. Ho una sola parola che rimbomba nella testa, ma non riesco neppure a pronunciarla. Sento il peso e la responsabilità di un segreto che porto con me da qualche giorno. Un segreto che mi chiude e mi incupisce. Un segreto che non è giusto che debba custodire io, perché non è vero che sono la più forte, non è vero che io posso capirlo e sopportarlo. È un macigno. Un peso che stringe il cuore in una morsa atroce, perché rispettare la volontà altrui è, allo stesso tempo, escludere chi avrebbe ogni diritto di conoscere ciò che sta accadendo.

Non dirò “perché a me, perché di nuovo a noi”. Non c’è logica, non c’è giustificazione che tenga. Non provo più neppure rabbia. Mi ripeto che se ce l’abbiamo fatta in passato, ce la rifaremo anche ora. Suona come una rassicurazione, provo a convincermi che anche in fondo al buio più pesto c’è una luce. Ma la verità è che non ero pronta, non credevo di dover ancora provare questo strazio. Ho chiuso tanti sogni in fondo a un cassetto, ho rinunciato a tanti ideali che avevo da piccola, ma non so rinunciare all’idea di essere figlia. Ho imparato a non desiderare la famiglia del Mulino Bianco, a lasciarmi il male alle spalle per diventare una donna serena, equilibrata. Ho imparato ad anestetizzare il dolore che ogni tanto ancora provocano le cicatrici e a non voltarmi più indietro. Ho imparato a gioire per l’affetto e l’amore incontrato tra braccia e volti sconosciuti come a compensare quelle mancanze sofferte. Ho imparato a inseguire e a lottare per l’unico sogno che poteva rendermi realizzata, anche quando nessuno ci credeva e tutti mi ritenevano folle. Ho imparato a credere nelle battaglie perse, a stare a fianco degli ultimi, a sedermi al pianoterra della vita perché da lì è più chiaro il senso di tutto. Ho imparato a non desiderare più un amore cieco, travolgente ma incompleto, manchevole, timoroso. Ho imparato che la mia forza sono le mie radici, quelle che mi accompagnano e mi sostengono in ogni passo, in ogni scelta, anche quando sembra incomprensibile. Quelle radici che mi hanno consolata in silenzio quando stavo male e mi hanno baciato la fronte quando le ho rese orgogliose. Ho imparato tante cose in questi anni sulla mia pelle, ma non voglio imparare a fare a meno delle mie radici.

Ho ancora bisogna di quelle radici. Oggi è l’unica certezza che ho.

Legami

Esistono legami capaci di andare oltre le distanze, oltre il tempo, oltre le ferite. Esistono legami impossibili da spezzare, nonostante le avversità, perché l’amicizia è un sentire le stesse cose, anche se lontane. È un pensiero costante all’altra, nonostante tutto. È un perdonarsi in silenzio, senza aggiungere altro, perché a volte persino le parole sono superflue. È un ritrovarsi come se non ci fossimo mai allontane. È volere la felicità dell’altra, ovunque sia. È vederla meravigliosa e gioire per lei, nel giorno del grande passo, mentre il tuo cuore piange. È mostrare a tuo padre lei, che è come una sorella, nel giorno che non sai se mai vivrete insieme.

23 giugno, le lacrime di gioia per un amore coronato si mescolano a quelle di paura per una nuova battaglia da affrontare. Eppure, è proprio in quel “nonostante tutto” che si cela l’essenza dell’amore.

I viaggi in corriera

Gli incontri migliori accadono per caso, mentre sei in viaggio e, persa tra i tuoi pensieri, fissi il finestrino. Scorrono luoghi familiari, il lago, il parco, il palazzo ducale. La corriera delle 14 giunge sempre come un tuffo al cuore. Mi ricorda chi ero e ogni volta ne sorrido stupita. Viaggio da sola ora e ho nel cuore nuove certezze. Non so cosa raccontino i miei occhi, ma finisco sempre col sorridere quando qualcuno puntualmente mi chiede cosa ci faccio sulla corriera e dove sto andando. Leggo stupore nelle loro parole, incredulità che si mescola con empatia e protezione. Ho smesso di identificarmi col mio lavoro, di volere sembrare a tutti i costi più grande, più professionale. Ho provato a farmi crescere i capelli, a truccarmi prima di andare a lavoro, a indossare i tacchi, a vestirmi da adulta, a non sembrare più una ragazzina. Ma io non sono questa e non voglio essere qualcosa che non rispecchia la mia anima. Non voglio vivere sforzandomi di dover dimostrare qualcosa e non voglio neppure accanto qualcuno che si senta indietro, perché sono troppo giovane o più stabile e indipendente di lui. Non voglio inseguire, non voglio sforzarmi di capire, non voglio dover immaginare cosa si nasconda dietro un silenzio. Vorrei un mondo essenziale e chiaro, vorrei persone limpide e sincere con cui confrontarmi, vorrei desiderare e fare un milione di cose, vorrei scoprire che da qualche parte, sepolta in fondo al cuore, c’è ancora un po’ di fiducia e vorrei sorprendermi nel non leggere più disincanto nei miei occhi.

In fondo, il dono più bello che potesse nascere dal dolore è stata la libertà. La libertà di essere me stessa, di vivere senza la paura dei giudizi, degli sguardi, dei rimproveri di disappunto. La libertà di fare esattamente ciò che mi passa per la testa, quando e come decido io. Quella libertà che mi rende consapevole di ciò che voglio e  di ciò che non voglio. Quella libertà che si nutre d’indipendenza e di voglia di assaporare il mondo. È quella libertà che non mi fa aver paura della vita, anche se dovesse finire ora, perché ho avuto tutto quello che ho desiderato e cercato. Ho inseguito un sogno e l’ho realizzato quando nessuno ci credeva, ho il lavoro che ho sempre desiderato, sono stata tanto amata e ho amato tanto e, anche se questi momenti non hanno coinciso, oggi, a chi me l’ha chiesto, mi è venuto spontaneo rispondere “Sì, sono felice della mia vita! E rifarei tutto, errori compresi, per non aver rimpianti”.

I viaggi in corriera sono così, ti scavano dentro verità che avevi paura di pronunciare.